Éva Kálló

Integrazione fra cura e educazione

26/01/2018
Tutte le correnti psicologiche della nostra epoca attribuiscono un’importanza speciale alle esperienze dei primi anni della vita per quanto riguarda la formazione della professionalità e soprattutto quelle che il bambino ha vissuto nella relazione con la persona che lo ha preso in carico: sua madre o la persona che la sostituisce.
Molti studiosi considerano i primi mesi di vita un periodo critico: l’età del bebè rappresenta la fase nella quale il bambino sviluppa quello che viene chiamato l’attaccamento primario grazie alla relazione con la madre e impara ad avvicinarsi agli altri con fiducia, impara ad amare e ad accettare l’interesse e l’amore degli altri.

Non v’è dubbio che l’integrazione dell’individuo nella società, la sua identificazione con le aspettative e le regole si radicano nell’affidabilità che ha potuto vivere nella sua relazione precoce.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale, gli esperti di educazione infantile hanno dovuto affrontare le gravi conseguenze dell’assenza di questa relazione precoce, attraverso la pubblicazione dei risultati delle ricerche prima di Spitz e in seguito di Bowlby. Fra diversi altri, sono stati gli autori che hanno posto di fronte ai professionisti che si occupavano della prima infanzia le gravi conseguenze della mancanza di un sistema di relazioni affidabili e stabili: l’accoglienza.Se si accetta l’importanza dell’attaccamento primario, l’unanimità non è più tale quando gli studiosi parlano delle diverse manifestazioni dell’amore materno: basandosi ognuno sulle proprie ricerche o in quelle degli altri, diversi autori sottolineano determinati aspetti, mentre altri ne focalizzano altri o non ne tengono conto. Vediamo alcuni esempi.

Il noto studioso Morris, la cui concezione dello sviluppo fa riferimento a Ranschburg (Ranschburg, 1995), chiama i primi tre anni di vita il periodo dell’Abbracciami!, e considera i primi sei mesi un periodo critico. Secondo questo autore, è praticamente impossibile dare sufficiente amore e contatto fisico al bambino durante il periodo critico e la madre che non prenda in considerazione questo fatto ne soffrirà le conseguenze più avanti. Secondo Morris il lattante potrà accettare la vicinanza fisica e le intime e tenere parole come sostituti del contatto fisico solo dopo i sei mesi di età (Morris, 1991).

Morris cita le ricerche in cui, nelle culture più diverse, gli stimoli della voce e i movimenti involontari con cui si cerca di tranquillizzare i bebè quando piangono, evocano in essi i ricordi della stretta relazione della gravidanza e della calma vissuta nell’utero. Per esempio, la maggior parte delle madri tiene il proprio bebè nel lato sinistro, vicino al cuore e per tranquillizzarlo camminano al ritmo del battito.

È vero. Il bebè smette generalmente di piangere quando la madre lo prende in braccio e, se non ha fame o dolore, può calmarsi per un tempo duraturo oppure addormentarsi. Rimane tuttavia una questione da chiarire se il contatto fisico e l’abbraccio materno sono l’elemento più importante della relazione e quali sono le altre molto importantiforme di stare insieme che le madri adottano: quelle che in questi primi mesi influenzano considerevolmente lo sviluppo successivo della relazione madre-figlio e attraverso di essa lo sviluppo armonico e socievole della personalità del bebè.

Winnicott, psichiatra inglese, è uno dei pochi studiosi che assegnano un ruolo trascendentale alla qualità del trattamento fisico nel consolidamento della sicurezza fisica del bebè e della sicurezza emotiva che da essa ne deriva. Per esempio, dà importanza al movimento del prendere in braccio, giacché attraverso questo atto su può e si deve proteggere il lattante dalla perdita di equilibrio che tanto lo spaventa. Nelle riflessioni sulle madri chiarisce che il piacere reciproco che il bebè e la madre vivono durante questi momenti di cura è di vitale importanza per entrambi.

Nel suo libro per genitori, Ranschburg segnala la saturazione emotivadella madre come l’elemento più importante dell’amore materno; il suo coinvolgimento emotivo nelle interazioni attivate con il figlio. scrive: “Non è sufficiente dare da mangiare al bambino quando ha fame, cambiargli il pannolino se il suo contenuto gli dà fastidio; bisogna prendersene cura e dichiarargli l’amore che sua madre sente per lui; bisogna prenderlo in braccio, se piange sorridergli e confidare che sorridendo sorrida anche lui; comunicare, guardarsi negli occhi e giocare con lui; parlargli; in una parola, far sentire in ogni momento della relazione il piacere che la sua esistenza ha per i suoi genitori” (Ranschburg, 1995: 97).

Nel suo libro Il mondo interpersonale del bambino, Stern cerca la risposta alla domanda su come i lattanti vivono la loro vita sociale e come, e attraversando questa tappa, accedono al vissuto sociale di stare con l’altro. Analizzando le reazioni spontanee delle madri constata che l’imitazione delle voci e della mimica del bebè è presente fin dall’inizio. Suppone che questa manifestazione di sintonizzazione emotiva acquista un carattere dialogico peculiare fra il bebè e la madre. Svolge un ruolo cruciale nel processo mediante il quale il bebè inizia a percepire l’altro, esce gradualmente dallo stato di unità duale e accede alla sua individuazione(Stern, 1987).

Emmi Pikler, basandosi sulla sua esperienza come pediatra e anticipando queste ricerche sull’attaccamento, arrivò alla conclusione che la responsabilità della madre rappresentava il fattore decisivo dello sviluppo armonioso della relazione madre-figlio, o più precisamente con le sue parole, “sano”.

Propose le situazioni di soddisfazione delle necessità fisiche del bebè: l’alimentazione, il bagno, il cambio del pannolino come ambiti fondamentali dell’interazione fra madre e figlio. Nel suo libro per i genitori pubblicato per la prima volta nel 1940, Mit tud már a baba?(Pikler, 1940), già si profila la sua originale concezione, unica per la sua epoca, dello sviluppo infantile e del ruolo dell’ambiente circostante. Fin dalla nascita il bambino possiede gli strumenti che gli permettono di prendere contatto attivamente con il proprio contesto. Per questo è necessario che gli adulti che si prendono cura di lui, i suoi genitori, stabiliscano le condizioni che gli permetteranno di scoprirlo senza impedimenti, senza pericolo e guidato dal proprio interesse. Ma anche se il bambino fin dalla nascita fosse in possesso delle potenzialità necessarie per entrare in contatto attivo con il suo contesto sociale e fisico, affinché si attivino in tempo utile e si trasformino in capacità reali sono indispensabili le esperienze che ha con l’adulto che si occupa di lui nelle situazioni di cura. Se la madre risponde con sensibilità e adeguatamente non solamente al pianto, ma anche alle manifestazioni spontanee in relazione alle necessità fisiologiche del bebè, alle reazioni emotive che appaiono nella sua tensione muscolare, nelle espressioni facciali o nei movimenti, consolida le basi della sua relazione e del suo carattere mutuo, ma solo se il bambino comprende che con il suo comportamento e con le sue risposte può influire in relazione a ciò che gli occorre.

Probabilmente non è casuale che Emmi Pikler utilizzi spesso le parole attenzione e educazione prossimale come sinonimi. Con tali parole esprime implicitamente la sua convinzione che i primi anni della vita di attenzione al bambino è, nello stesso tempo, equivale a educarlo: l’intreccio intima fra il rapporto di cura e l’educazione sta alla base dello sviluppo e della manifestazione della sua personalità. Attraverso questo manifesta allora implicitamente il suo Es quando l’adulto entra in contatto fisico diretto con lui. Pikler scrive che il bebè ha bisogno di molto amore e riconosce che la madre esprime tale amore anche con il suo sorriso, la sua amabilità, le sue parole e a colte con il gioco, ma considera il rapporto di cura amorevole come la cosa più importante della relazione. “Dobbiamo sforzarci di fare sentire il nostro amore ai nostri figli attraverso buone pratiche di cura. Non solo teoricamente buoni, ma buoni concretamente, in maniera personale e peculiare” (Pikler, 1940: 45).

Per questo occorre conoscere il bambino. “Perché non bastano gli occhi per vedere, occorre prestare attenzione, ascoltare e pensare al posto del bambino; sentire e immaginarci nel suo mondo” (Pikler, 1940: 45). “Questa familiarizzazione è naturalmente reciproca”, conferma Emmi Pikler.  “Anche il bambino incomincia a conoscere l’adulto e, in primo luogo, la sua mano”. “Che differenza, quale differente immagine avrà il mondo per il bebè, se incontra mani tranquille, pazienti, attente, a volte ferme, se invece lo manipolano mani impazienti, dure, precipitose, inquiete, nervose! Per il lattante all’inizio la mano è tutto, la mano è la persona, il mondo”. “Osservalo! Conosci tuo figlio. Se veramente scopri quello di cui ha bisogno, se senti che cos’è che realmente lo affligge, di che cosa ha bisogno, allora saprai trattarlo adeguatamente, potrai guidarlo e educarlo bene.”

Emmi Pikler ha il merito di avere riconosciuto che la salute fisica e la salute emozionale rappresentano un’unità inscindibile durante i primi anni di vita. La madre promuove la salute psichica, lo sviluppo mentale sano del bebè, se soddisfa le sue necessità fisiche personali. La soddisfazione di tali necessità fisiologiche individuali del bebè costituiscono la base del suo sviluppo mentale! Nei primi anni di vita la cura fisica ed educativa non sono separate, sono entrambe intimamente intrecciate!

Cosicché questa conoscenza si estende a tutte le necessità fisiologiche del bambino, che si tratti dell’appetito, del bisogno di riposo, della sensibilità ai rumori, al freddo o al caldo o ai cambiamenti di temperatura. Ma si tratta di una conoscenza reciproca. Anche il bambino comincia a conoscere dell’adulto che lo accudisce dal primo momento della sua vita, come già abbiamo detto, principalmente le mani. È stata questa la convinzione che ha guidato Emmi Pikler che, basandosi sulle sue osservazioni dirette, ha elaborato una maniera precisa di prendere il bambino, di sostenerlo sulle braccia, porlo nel fasciatoio o nella culla, muovere i suoi arti o il corpo intero, con la quale è arrivata alla conclusione che già a questa età molto precoce il bebè sia rilassato e aperto alla relazione, al contesto che gli sta intorno e agli avvenimenti che lo riguardano. E se all’inizio il bagnetto e il vestirlo risultavano al bambino molesti, sarà proprio grazie alle maniere attente e delicate che in pochi mesi il bagnetto potrà diventare il punto culminante della giornata, un’occasione che offre allegria al bebè e insieme alla madre. Accudire, aggiustarsi e cooperare reciprocamente costituiscono i primi passi che conducono alla pacifica convivenza con tutti gli altri. “Non dobbiamo mai trattare il bambino in modo meccanico. Non lo dobbiamo mai trattare come se fosse un oggetto senza vita, per quanto piccolo sia. Facciamo il lavoro insieme: la madre il suo e il bambino il suo … Se trattiamo il neonato amorevolmente, con pazienza con cura fin dal primo momento, sentirà ogni volta di più il piacere di stare con noi. Parallelamente, acquisterà sempre più fiducia e prendere sempre più parte al nostro lavoro con lui.” (Pikler, 1940: 47).

Per maniere pazienti intendiamo preparare il bambino per la successiva parte dell’azione con gesti, parole e attese della sua risposta, che inizialmente sarà soltanto l’espressione che anticipa il passo successivo nell’abituale routine del bagnetto o del vestire. In questo modo si impara in poco tempo ad adeguarsi all’azione e a cooperare nel vestirsi e nello svestirsi. Se si farà questo intorno all’anno e mezzo comincerà a cercare di fare da solo quello che prima faceva insieme a sua madre, e questo causa piacere e soddisfazione a entrambi.

Nel suo libro Mit tud már a baba? Emmi Pikler dedica un intero capitolo alla socializzazione nel periodo di transizione da bebè a bambino piccolo. Sottolinea l’importanza dei modi pazienti e della collaborazione anche in questo ambito. “Risolviamo questo difficile passaggio del bebè al bambino piccolo non contro di lui, non affrontandolo ma ponendosi al suo fianco, aiutandolo e sollecitando la sua collaborazione.” (Pikler, 1940: 63). Perciò in ogni ambito della cura-educazione è necessario evidenziare che occorre tenere conto della personalità del bambino. I genitori non devono misurare lo sviluppo del figlio attraverso il confronto con gli altri bambini. “Non facciamo fretta! È importante che, anche se lentamente, a passo di tartaruga ma in maniera graduale, il bambino faccia i suoi progressi, impari ad adattarsi passo passo alla vita reale.” (Pikler, 1940: 89). Emmi Pikler dà speciale importanza ai limiti che devono essere ragionevoli e sempre a misura di bambino.

Allo stesso tempo sottolinea che i genitori non devono cercare di imporre al bambino il comportamento adeguato parlandogli con autorità, minacciandolo o ricattandolo sul piano emotivo. Dopo dieci anni di esperienza basata su più di cento famiglie e accompagnando lo sviluppo dei loro bambini, afferma con convinzione che se il bambino si sente bene nel mondo, se si relaziona in modo soddisfacente con i genitori, vorrà assomigliare a loro sempre di più. E a partire dalla sua comprensione innata e ai suoi ritmi, i genitori possono ottenere che apprenda ad attenersi alle principali norme di comportamento da solo.

Anche Winnicott arrivò ad una convinzione simile sul ruolo del rapporto di cura nella relazione madre-figlio. Winnicott era pediatra e psicoanalista. Da un’altra prospettiva professionale e da un altro orientamento teorico arrivò a simili conclusioni basandosi sull’esperienza terapeutica con bambini psichicamente danneggiati. Nel suo libro divulgativo per genitori Il bambino, la famiglia e il mondo esterno (Winnicott, 1964), pubblicato in Inghilterra nel 1964 e in Ungheria nel 2000, basato su una serie di discorsi tenuti alla BBC, scrive anche che le cure del corpo e della psiche convergono. Sostiene che lo sforzo spontaneo della madre per conoscere il suo bambino garantisce la base di sintonizzazione alle necessità del bambino, del suo accomodamento sensoriale. In modo simile a Emmi Pikler, anch’egli vede che il precoce e buon accomodamento della madre alle manifestazioni del bebè lo porta in maniera naturale alla cooperazione. Pensa in modo altrettanto simile che il rapporto di cura è più di una serie di manovre meccaniche che la madre realizza quotidianamente per la salute del proprio figlio. Il bagnetto, ad esempio, se la madre lo fa con un tempo sufficiente per iniziare una vera relazione umana, è un’opportunità per condividere vissuti di cui entrambi possono godere. In un’altra sua opera teorica, non pubblicata in Ungheria, attribuisce anche grande importanza alla qualità del trattamento fisico. Per Winnicott la delicatezza delle mani che toccano il bebè i movimenti legati alla cura, sensibili e attenti, sono importanti per conservare l’integrità del corpo.

Judit Falk, la collaboratrice più vicina a Emmi Pikler nel centro di Lóczy, da lei stessa fondata e diretta, espone in modo simile la sua opinione sull’unitarietà fra cura ed educazione fin dal 1980 (Falk, 1983).Scrive: “Il bambino impara a differenziare le sue necessità principalmente durante la soddisfazione delle necessità fisiche, cioè nel rapporto di cura e, nella misura in cui l’adulto che si prende cura di lui tiene conto delle sue manifestazioni in questo ambino, sarà capace di differenziarle e manifestarle con sempre maggiore precisione. L’adeguata soddisfazione delle necessità fisiologiche ha come primo risultato il senso di sicurezza del bebè e come il suo ottenimento si associa alla persona che lo accudisce, il bebè subito sviluppa subito fiducia e un vincolo nei confronti dell’adulto che lo fa. Il bebè che può prendere la parola durante il momento di cura, nel modo nel quale vengono soddisfatte le sue necessità, nella velocità con la quale gli si dà da mangiare, nella quantità del cibo, nel ritmo con il quale lo si sveste e lo si veste, potrà sentirsi efficace, o come ora si dice, competente, in un’età molto precoce. Oltre a determinare la relazione di partenairecon gli adulti più vicini, questo vissuto ha un effetto positivo anche nella sua relazione con il mondo fisico. Si nutre del sentimento di efficacia vissuto in una relazione intima con l’adulto che gli permette che quando agisce, si muova o giochi, scopra ciò che gli sta intorno in modo indipendente, guidato dal proprio interesse” (Falk, 1983,45).

Sulla base di quanto detto, come ha fatto Emmi Pikler e le sue collaboratrici a superare i loro colleghi stranieri? In che cosa consiste l’unicità? Perché vale la pena prendere in considerazione il nucleo unitario cura-educazione in relazione al legame affettivo? Forse perché Emmi Pikler non scoprì solo i parametri necessari per un legame sicuro, ma perché concepì il legame affettivo e il nucleo cura-educazione come un unità nella quale cure amorevoli e attente oltre a stabilire il legame in se stesso, erano la chiave dell’educazione precoce. Entrambe le parti, l’adulto e il bambino, sono immersi nella qualità del rapporto di cura, nell’invito a cooperare. Nella misura in cui l’adulto coinvolge amorevolmente il bambino nelle pratiche di cura, promuove il risveglio della sua consapevolezza e della sua autostima. È questo un dettaglio con il quale Emmi Pikler va oltre le semplici pratiche fino ad allora adottate per quanto riguarda l’attaccamento. L’immagine positiva che si fa di se stesso, che il bambino può costruire durante i momenti di cura, costruisce la sua capacità di amare gli altri e convivere con quelli che gli stanno intorno in armonia.

La questione è se si può realizzare l’unità cura-educazione in un’istituzione: nidi d’infanzia, centri familiari per bebè e bambini piccoli a casa. È importante dare una risposta adeguata perché le esigenze del bambino non cambiano a seconda che viva in famiglia, in un’istituzione o frequenti un nido d’infanzia nel quale passa diverse ore ogni giorno affidato alla cura di apre persone. Grazie a Emmi Pikler ci sono diversi vantaggi riconosciuti in tutta Europa con l’assistenza dei bebè e di bambini piccoli, come ad esempio la stabilità dell’educatrice nel gruppo, pratica che ha dato buoni risultati, così come avviene nel cosiddetto sistema ascendente (in Ungheria le educatrici cominciano sempre con gli stessi bebè e li accompagnano fino a quando diventano grandi). Sono questi i requisiti di base per i quali i bambini possono ricevere un’attenzione individuale e un trattamento personale anche fuori di casa. La figura cosiddetta di riferimento, cioè quella che è principalmente responsabile del bambino e intende bene il suo compito, sarà lei che meglio conoscerà i bambini che le sono stati affidati. Conosce le loro necessità individuali, le loro abitudini, le loro risposte particolari; è lei la principale responsabile del loro benessere, del loro stato d’animo armonioso. Tutto quello che impara su di loro attraverso l’osservazione lo condivide con le colleghe che anch’esse a loro volta condividono le loro osservazioni degli altri bambini. Mettendo in pratica questi principi, più che conseguire una tecnica adeguata, è forse più importante che sia una tecnica uniforme. Questo significa che tutte le educatrici svestano, vestano facciano il bagnetto ai bambini in modo concorde perché il bebè, il bambino piccolo, che riceve le cure da diverse persone che si alternano, solo così potrà orientarsi negli accadimenti che lo aspettano e adattarsi ad esse. Disgraziatamente anche oggi possiamo vedere che le persone che si prendono cura, le lavoratrici dei servizi per l’infanzia, anche se danno da mangiare, cambiano il pannolino e vestono i bambini secondo le regole, lo fanno in forma meccanica, uno dopo l’altro. Molte volte anche le loro frasi sono identiche, quando, secondo la coreografiae quello che hanno appreso nella loro formazione, informano il bambino o chiedono la loro collaborazione. Se analizziamo le interazioni fra gli adulti e i bambini che ricevono questo tipo di cure, vediamo che sono molto meno numerose interazioni che il bambino inizia con loro. Quasi non si stabilisce dialogo fra entrambi, manca la reciprocità, l’aggiustamento dell’uno e dell’altro.Questo generalmente comporta che, sotto il pretesto di educare all’autonomia, l’adultosolleciti in eccesso la partecipazione del bambino quando lo si veste o lo si sveste e gli si fa fretta. Tuttavia, l’autonomianon è un fine in se stessa e i progressi nell’autogestionenon sono il segno di una vera autonomia.

Avrà un effetto autenticamente positivo, nel senso reale della parola, quel rapporto di cura che forma veramente la personalità, nella quale il bambino fin da piccolissimo sia in permanente dialogo con l’adulto che dà tempo al bambino affinché le sue osservazioni e le sue domande possano arrivargli, e più tempo anche per il bambino affinché possa rispondere secondo il modo appropriato alla sua età, ai suoi gesti, alla sua voce o ai suoi segni.

I due pilastri di base dell’approccio cura-educazione pikleriano sono la fiducia nella capacità di sviluppo del bebè e la ferma convinzione che si possa stabilire con lui una relazione di partenaire.

Non è facile per le persone che si prendono cura dei bambini riuscire sempre ad essere attente e sensibili alle loro risposte, che vedano i mattoni che costruiscono la loro personalità fatti di gesti, comportamenti e preferenze. Secondo Emmi Pikler alla base elementare di essa ci sono le situazioni di cura e il risultato dipende dalle loro qualità. Si propose come fine di gettare le basi di questi due pilastri quando nel 1946 fondò il suo centro infantile di via Lóczy. Per il suo funzionamento creò le condizioni personali, materiali e organizzative che rendono possibile che questi due principi possano prevalere. Dagli anni sessanta ha potuto lavorare con colleghe impegnate su questi principi, con le quali ha potuto trovare risposte efficaci a diverse questioni teoriche che calzavano bene con la sua concezione originale in linea con gli sviluppi della psicologia evolutiva contemporanea. Oltre ad osservare i bambini che vivevano a Lóczy, seguiva con attenzione il funzionamento di altri centri per bambini piccoli e con le sue colleghe continuamente perfezionava i requisiti la cui realizzazione rende possibile che un bambino piccolo cresciuto in un’istituzione sia adatto per una relazione, attivo, competente e diventi una persona equilibrata, capace di elaborare le proprie frustrazioni.

Emmi Pikler e le sue colleghe svolsero un ruolo importante nell’alta qualità del funzionamento dei servizi per l’infanzia ungheresi. In parte lo fece diffondendo i suoi concetti pedagogici alle figure professionali che dirigevano il sistema delle scuole dell’infanzia del paese. Per altro verso, l’ha potuto fare perché ha potuto contare sulla partecipazione attiva di tutta l’equipe di Lóczy attraverso l’elaborazione del progetto educativo e dei materiali didattici per la formazione delle educatrici della prima infanzia dell’epoca. Ai nostri giorni i servizi per l’infanzia ungheresi, e anche molti stranieri che hanno aderito ad esso nel corso di questi anni, si basano sulla pratica organizzativa e pedagogica che fu adottato nell’Istituto Lóczy e lo fecero con successo. Con ciò hanno garantito l’opportunità a molti bambini, attraverso la fiducia in se stessi e negli altri, a diventare persone competenti. Con il suo lavoro l’equipe ha dato e continua a dare a molte educatrici e pedagogiste non solo una prospettiva teorica ma anche una pratica sviluppata a livello concreto per realizzarla. Allo stesso modo, ancora oggi molte educatrici e professioniste dell’educazione hanno l’opportunità, comprendendo l’unità inscindibile cura-educazione, di potere vivere e sperimentare la soddisfazione di essere professioniste realmente competenti.

Bibliografia

Falk, Judit: Mit jelent a gondozás és nevelés egysége? XXIV. Dokládi, A nevelési légkörről.2. kiadás, 1983.

Morris D.: Babamegfigyelőben. Park kiadó. (Babywatching. Jonathan Cape, London, 1991).

Ranschburg, Jenő: Szülők lettünk, Csér kiadó, Budapest, 1995.

Pikler, Emmi: Mit tud már a baba ?Budapest, Ed. Cserépfalvi, 1940. (Che cosa sa già il bebè?)

Stern, Daniel: TheInterpersonalWorldof theInfant.AView from Psychoanalysis and Developmental Psychology. Basic Books, Inc., Publishers, New York © 1985. (Il mondo interpersonale del bambino, Boringhieri, Torino, 1987).

Winnicott, Donald: The Child the Family and the Outside WorldLondon: Pelican Books.

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